Descrizione
LA STORIA
Centro di antica fondazione, le sue origini non godono della presenza odierna di documenti che aiutino a tracciarne l’evoluzione, se non in modo lacunoso. Le scarse notizie storiche, consistenti in nomi di personaggi rilevanti e date, si infoltiscono a partire dal XVII secolo. Anche se il piccolo nucleo urbano indubbiamente esisteva da prima del XIII secolo, essendo stato in origine una probabile fortificazione araba, risalgono a questo periodo i primi nomi di baroni e duchi che ressero l’omonimo Comune feudale, comprendente i territori circostanti, nomi tutti legati alla dinastia dei Colonna Romano, introdotta in Sicilia durante il regno di Federico II di Svevia. Tra i membri di tale casato, Mons. Giovanni, arcivescovo di Messina (1255), Cristoforo, medico di fiducia del re Federico II d’Aragona e Strategoto di Messina (1320 – 1328), Tommaso suo figlio (1420) e molti altri, per un totale di 14 successioni signorili feudali, fino al XVIII secolo.
L’origine del nome di Cesarò è incerta, ma la maggior parte dei filologi spiega la sua etimologia con la parola araba “kaer”, cioè “luogo fortificato”, che sarebbe poi evoluta in Kasr, Kasròn e quindi in Cesarò.
Nel 1768 è nota l’istituzione di un Monte Frumentario a Cesarò, quale supporto per gli agricoltori poveri del Comune. Punto di riferimento fondamentale per lo studio delle origini e della storia del paese di Cesarò è ad oggi una monografia, “Cesarò”, scritta dall’avvocato Francesco Schifani (1887 – 1918) ed edita a Napoli nel 1921. In tempi recenti il Comune di Cesarò ne ha curato una ristampa.
Il comune annovera tra i suoi edifici il Palazzo Zito, un tempo residenza dell’omonima famiglia e dal 2009 aperta, dopo un restauro, in qualità di casa – museo. Contiene ancora affreschi, arredi e pavimenti originali. È l’unico palazzo di notevole dimensioni ubicato in paese.
IL TERRITORIO
Il territorio di Cesarò si estende parte sul versante settentrionale e parte sul versante meridionale dei Monti Nebrodi. In esso ricade il tratto più suggestivo della dorsale dei Nebrodi, quello comprendente la vetta più alta della catena, Monte Soro, e i laghi Biviere e Maulazzo. È, per altitudine, il secondo comune più elevato della Sicilia.
La grande distanza che lo separa dai principali capoluoghi (70 km da Catania, 115 km da Messina, 170 km da Palermo), fa di Cesarò uno dei comuni più remoti e isolati della provincia di Messina.
IL CLIMA
Il clima della cittadina è fortemente influenzato dalla posizione geografica nella catena montuosa dei Nebrodi e dalla relativa altitudine. Nel periodo invernale, specialmente tra gennaio e febbraio, il clima è rigido con temperature molto basse e frequenti nevicate (zona climatica E). Nel periodo estivo, grazie alla quota elevata e alla presenza dei boschi, le temperature sono molto piacevoli.
I PRODOTTI TIPICI
L’attività contadina dei paesi dell’isola è alla base della tradizione gastronomica. Anche a Cesarò, come in tanti piccoli centri montani, la cucina fa uso di pochi ingredienti facilmente reperibili, cucinati in modo semplice ma spesso arricchiti da aromi e spezie per esaltarne il sapore. La pasta preparata in casa (“i maccheroni”) nei giorni di festa, è condita con sugo di pomodoro e carne di maiale o di castrato e spolverata con ricotta salata grattugiata. La ricotta non è che uno dei tanti prodotti tipici caseari cesaresi ed insieme a provole, tuma, canestrato e pecorini rappresenta la massima espressione dell’attività tradizionale di trasformazione del latte. Le carni bovine, ovine e suine, sono semplicemente arrostite alla brace e aromatizzate con aglio, origano, limone. Famose le verdure come gli asparagi selvatici che conservano il sapore dei boschi e dei prati. Anche il pane ancora oggi preparato in casa col lievito naturale e cotto nel forno a legna da sapienti mani, ha il sapore della tradizione. Più fantasiosi ed elaborati sono i dolci cui ingredienti sono mandorle, nocciole e pistacchi. Tra i dolci tipici, ricordiamo quelli del periodo pasquale.
SAN CALOGERO
Storia
E’ comunemente accettato il XV secolo come il periodo iniziale della scelta di San Calogero quale protettore di Cesarò.
Prima il paese, era sotto il sacro patrocinio di Santa Caterina d’Alessandria (o “della ruota”); e forse, in origine del culto cristiano, sotto l’alta protezione di “Maria Santissima Assunta”.
Il San Calogero che si venera a Cesarò e’ quello il cui corpo era conservato presso l’antico monastero di San Filippo di Fragalà.
Il termine “Calogero” molto diffuso nell’area nebrodense, quando, nei primi secoli, si propagò in Sicilia l’eremitismo ed ebbe un successivo impulso sotto la dominazione bizantina con il monachesimo greco-brasiliano. Il termine significava “Bel vecchio” e la “bellezza s’intensificava con la “santità”.
I “Calogeri” dei Nebrodi dovettero essere numerosi; e quindi rimane l’interrogativo se il san Calogero di Fragalà era un Santo locale dei Nebrodi o fosse invece da identificare con il più noto san Calogero di Sciacca. Un inno del IX secolo, scritto dal monaco Sergio (detto “l’Innografo”) in onore di san Calogero di Sciacca era conservato a Fragalà.
Ciò farebbe supporre la medesima identità dei due “Calogeri” e confermerebbe la tradizione, secondo la quale il corpo del Santo venne nascostamente trasferito, nel periodo arabo, da Sciacca al monastero di san Filippo.
Il motivo era giustificato dal fatto che Sciacca veniva a trovarsi in una zona completamente arabizzata e sotto il fanatismo dell’Islam, mentre la Valle di Demenna (o Val Demone), in cui ricadeva san Filippo di Fragalà era rimasta in parte non islamizzata e praticamente sotto il controllo cristiano.
Il monastero di san Filippo di Fragalà aveva ottenuto dai Normanni il possesso di alcuni feudi, tra cui, in territorio di Cesarò, quelli di “Santa Nicoletta”, di “Semantile” e di “Grappidò “. Cio dava l’occasione ai Cesarei che lavoravano, in tali possedimenti di recarsi periodicamente a Fragalà , nei pressi di Frazzanà. In uno di questi non rari viaggi a Fragalà , come è tramandato dalla tradizione locale, un Cesarese ottenne dai monaci quattro pezzetti ossei tratti dal corpo di san Calogero. Rientrato a Cesarò di notte, appese le bisacce allo “stanti” e andò a dormire. Alzatosi di buon mattino, il contadino (o il pastore) ebbe la straordinaria sorpresa di vedere come quel palo secco fosse diventato una pianta florida e frondosa!
La notizia dell’insolito avvenimento si sparse ben presto e pervenne alle orecchie del conte di San Marco, che aveva giurisdizione su Fragalà. Irato perchè, senza sua licenza, erano stati donati i frammenti ossei del santo Eremita, ingiunse che fossero restituiti.
La pretesa del conte non piacque ai Cesarei che ormai consideravano proprie le reliquie, ritenute miracolose: e cominciarono a frapporre ostacoli per non restituirle. Ma il conte, avendo giuridicamente ragione, insistette; e i Cesarei, loro malgrado, dovettero cedere.
I messi del conte posero le reliquie su una mula e iniziarono il percorso del ritorno. Però, all’uscita del paese, la mula reclinò le gambe e non si mosse, nè valsero le frustate a farla rialzare. Per cui la gente presente dichiarò essere pure questo un segno del Santo il quale voleva che le reliquie restassero in paese.
Un bimbo di pochi anni prese casualmente le redini e la mula si alzò docilmente e lo seguì. Nessuno osò togliere le redini al bambino, che proseguì per un tratto verso la parte opposta della trazzera che conduceva a Fragalà , mentre la popolazione seguiva inneggiando al Santo.
Gli stessi inviati capirono che qualcosa di soprannaturale stava accadendo; e decisero di lasciare le reliquie ancora a Cesarò e di riferire al conte.
Questi, infine, messo al corrente degli ultimi avvenimenti, acconsentì che le reliquie rimanessero a Cesarò.
Festa
Cesarò festeggia tuttora due volte l’anno san Calogero: il 18 giugno e il 21 agosto. La prima data coincide con il calendario liturgico ed è la ricorrenza effettiva del Santo. La seconda data ha un valore simbolico, poiché è sorta come festa di ringraziamento per l’avvenuta raccolta granaria; essendo l’economia cesarese, specialmente nel passato, del tutto basata sull’agricoltura e la pastorizia.
Le due feste annuali di San Calogero sono precedute dalla fiera del bestiame, che si tengono rispettivamente nei giorni 16 e 17 giugno e 19 e 20 agosto.
I festeggiamenti in onore del Santo Patrono alternano celebrazioni e riti religiosi, quali il triduo, la processione delle reliquie e quella della statua del Santo, seguite dai cesarei con profonda devozione, a manifestazioni prettamente laiche, come giochi di società (pentolaccia, tiro alla fune, palo della cuccagna, caccia al tesoro, ecc.), il palio, i concerti canori e le serate di cabaret; il tutto corredato dalle sfilate della locale banda musicale, dagli spari dei mortaretti e dei fuochi d’artificio.
Ma i momenti più belli della festa sono senz’altro quelli legati alla tradizione: la questua, le “pisate” e la corsa del percolo trainato dai ragazzi.
La questua si effettua nei giorni immediatamente precedenti la festa, durante i quali i componenti della commissione girano per le vie del paese, seguiti dalla banda musicale, bussando a tutte le porte per raccogliere le offerte.
Oggi si tratta di offerte in denaro, ma fino a qualche decennio fa i contadini erano soliti donare al Santo una certa quantità di grano: ciò rendeva indispensabile l’utilizzo, per il trasporto del grano nei magazzini, di muli bordati a festa.
Un’altra usanza tradizionale è “a pisata”, che avviene per lo più, durante i festeggiamenti di agosto.
Anticamente ogni coppia di sposi novelli, di ambiente contadino, prometteva a san Calogero un’offerta in grano equivalente al peso del primo maschietto che avessero avuto. Essendo allora le coppie più prolifiche di quanto lo siano ora, capitava che le “pesate” fossero ogni anno alcune decine.
I genitori avvisavano la Commissione di voler esaudire la promessa fatta al Protettore con la “pisata” del primogenito. La Commissione fissava un orario e, con la banda musicale, si recava presso le abitazioni dei bimbi da “pesare”. Tutto il vicinato era pronto ad assistere e si raccoglieva intorno.
Un addetto della Commissione, detto “capo-pesate”, predisponeva l’apposita bilancia a bilico, dove su un piatto si adagiava il bimbo e sull’altro si metteva il sacco col frumento. Ma il frumento risultava sempre inferiore al peso del bimbo; non perchè era realmente così, bensì per il trucco, da tutti conosciuto ed accettato, messo in opera dal “capo-pesate”. Era, infatti, il suo piede, posato sul piatto del bimbo, che impediva di alzarsi. Così fin quando il “capo-pesate” non si accorgeva che il peso del grano era quasi il doppio di quello del bimbo: allora toglieva il piede ed esclamava: “Auguri e salute, di buon peso”! Tutti gli astanti battevano le mani mentre la banda intonava un motivo trionfale. Il rito si ripeteva per ogni bimbo da “pesare”!
La processione di S. Calogero è la più spettacolare tra quelle cesaresi, sia per solennità che per afflusso di devoti. Aprono il corteo i “masculara”, che sparavano bombe e fuochi d’artificio; seguono i confrati delle tre Congregazioni, rappresentate dai rispettivi stendardi, quindi i chierichetti e il clero immediatamente preceduti da una croce argentea su asta; a contatto col clero vi è l’artistico percolo con la statua lignea del Santo Protettore, seduto e in vesti paramentali propri della dignità abbaziale, in gesto benedicente; e, dietro, lo scrigno con le reliquie. Dopo le autorità civili e militari procede la banda musicale, che intona motivi religiosi, seguita da una marea di popolo, tra cui parecchi fedeli scalzi per voto o per implorazione di grazie.
Il corteo procede lungo il corso principale e, al bivio con la strada del cimitero, si ripete l’antico spettacolo, devozionale e folkloristico ad un tempo, della presa del santo da parte dei ragazzi che, al grido di “sutta carusi”, afferrano le grosse funi del percolo conducendolo, a passo di corsa e al suono della fanfara, sino all’inizio della “strabella”.
Vuole, infatti la tradizione che proprio in quel punto, la mula che portava le reliquie del santo avesse piegato le ginocchia e non si fosse più mossa, fin quando un bambino, afferratene le redini, la ricondusse in paese! La processione si conclude all’imbrunire con la “mascatteria” (accensione di petardi multipli a terra), gli spari di fuochi d’artificio e le grida di “Viva San Calariu”.
Dopo cena la festa si conclude con il concerto, il sorteggio e i giochi pirotecnici.